Video & Privacy: il consenso del dipendente esclude l’illecito del datore di lavoro

Con la Sentenza n. 22611 dell’11 giugno 2012, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Penale, ha scritto i titoli di coda di un procedimento iniziato anni prima e conclusosi in primo grado con la condanna di un’azienda…

Gianluca Pomante
Avvocato esperto in tema di Privacy e IT

Con la Sentenza n. 22611 dell’11 giugno 2012, la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Penale, ha scritto i titoli di coda di un procedimento iniziato diversi anni prima, conclusosi in primo grado con la condanna di un’azienda, ritenuta responsabile di avere installato un sistema video che inquadrava i dipendenti senza averne concordato le modalità con la rappresentanza sindacale aziendale o con la commissione interna. E senza averne comunque dato comunicazione, in assenza di detti accordi, alla locale Direzione Provinciale del Lavoro.

Quello pervenuto all’attenzione della Corte di Cassazione è un fenomeno relativamente diffuso, che spesso ha avuto semplicemente l’esito di veder rimuovere alcune telecamere - se non l’intero impianto - su sollecitazione delle rappresentanze sindacali o di veder sanzionare l’azienda in sede amministrativa, per la mancata sottoscrizione dell’accordo o la mancata comunicazione al competente Ufficio del Lavoro.
Occorre, invero, ricordare che, all’inizio degli anni ’70, gli impianti di videosorveglianza venivano installati solo dalle aziende di maggiori dimensioni, a supporto della sorveglianza fissa o itinerante, per evitare che la semplice osservazione dei turni delle ronde potesse favorire eventuali malintenzionati nell’aggressione al patrimonio aziendale.
Si trattava di impianti analogici, con riprese in bassa risoluzione e solitamente in bianco e nero, oltremodo costosi per essere alla portata di commercianti, professionisti e piccole imprese.
Con l’abbattimento dei costi derivante dall’avvento del digitale, in pochi anni si è passati - al contrario - a un tipo di installazione “modaiola”, in cui si è persa di vista l’esigenza della tutela del patrimonio aziendale, per dare spazio a un confronto a distanza tra imprenditori che ricordava la corsa all’acquisto delle autovetture di grossa cilindrata o allo yacht aziendale.
Solo alla fine degli anni ’90 - con la presa di coscienza dei rischi legati alla digitalizzazione e alla diffusione dei dati video e, soprattutto, alla crescente possibilità di acquisire immagini a colori, in alta risoluzione, e di procedere al controllo remoto delle apparecchiature - l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori ha mostrato tutta la sua lungimiranza e sono iniziati i contenziosi, sfociati anche in procedimenti penali come quello in esame.

Condotta illecita? E’ necessario
che l’impianto non venga dichiarato

Per tornare al caso pervenuto all’attenzione della Corte di Cassazione, secondo l’accusa, l’impianto consentiva al datore di lavoro, almeno potenzialmente, di controllare a distanza l’operato dei suoi dipendenti, in chiara violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), che prevede il divieto di installare impianti di videosorveglianza, dai quali possa derivare il controllo a distanza dei lavoratori, senza il preventivo consenso delle rappresentanze sindacali o della commissione interna.
La tesi del difensore muoveva, invece, le basi da un documento, sottoscritto da tutti i dipendenti, con il quale il titolare li aveva portati a conoscenza dell’esistenza dell’impianto di videosorveglianza e della collocazione delle telecamere.
Trattandosi di installazione alla quale tutti i dipendenti avevano prestato assenso - puntualmente segnalata con i cartelli che indicavano la presenza delle telecamere - risultava quantomeno difficile ipotizzare che il datore di lavoro, dolosamente, intendesse controllare da remoto i propri dipendenti.
Ferme restando le possibili censure in sede amministrativa sulla collocazione delle telecamere e sulle modalità operative dell’impianto, dal punto di vista penale occorre rilevare se vi fosse l’elemento psicologico dell’aver agito con coscienza e volontà di ledere la dignità del dipendente, effettuandone il controllo a distanza.
Analizzando l’art. 4 citato, si rileva la necessità della coesistenza di due distinti elementi, per poter concretizzare l’illiceità della condotta del datore di lavoro: la possibilità che l’impianto possa essere utilizzato per il controllo a distanza dei lavoratori; la mancanza di informazione ai lavoratori.
Quanto al primo elemento, è opportuno rilevare come - secondo la Corte - occorra una possibilità, anche solo potenziale, di adibire l’impianto al controllo a distanza dei dipendenti.
Sarebbero, quindi, da evitare soluzioni che prevedano l’utilizzo di videoregistratori consultabili da remoto, privi di credenziali di accesso al sistema, per l’evidente difficoltà di operare un qualsiasi controllo sull’eventuale accesso non autorizzato, o comunque illecito, ai dati contenuti nel DVR, da parte del datore di lavoro come di ogni altro soggetto (dirigenti, capi reparto, ecc.) che potrebbe essere interessato a farlo per censurare la condotta di un dipendente.
Nel contempo, tuttavia, per schedare una condotta come illecita, è anche necessario che l’impianto non sia stato dichiarato, ovvero che i dipendenti (o le loro rappresentanze) non siano stati portati a conoscenza della sua esistenza.
Questo è il passaggio messo in rilievo dalla Suprema Corte, che ha negato la rilevanza penale del solo potenziale lesivo dell’installazione, dovendosi comunque ritenere illecita solo la condotta chiaramente preordinata al trattamento dei dati, in assenza di qualsiasi comunicazione o informazione ai diretti interessati.

Acquisizione del consenso
di tutti i dipendenti

Durante l’esame del fascicolo processuale è emerso che, pur in assenza di una formale autorizzazione della rappresentanza sindacale o della commissione interna, vi fosse agli atti un documento, sottoscritto da tutti i dipendenti, con il quale gli stessi venivano informati dell’esistenza dell’impianto e del collocamento delle telecamere, al quale prestavano assenso.
Telecamere collegate a un impianto che, peraltro, risultava anche conforme al provvedimento generale sul trattamento dei dati tramite sistemi di videosorveglianza reso dal Garante Privacy e diffusamente segnalato all’interno dell’azienda con i cartelli adeguati al modello indicato dall’Autorità.
Il punto cruciale della decisione della Corte di Cassazione è risultato essere l’acquisizione del consenso di tutti i dipendenti che, secondo il Supremo Collegio, rende inutile la pronuncia di un organo rappresentativo, dato che il consenso di quest’ultimo sarebbe comunque di minore rilevanza rispetto all’assenso dato dalla totalità dei lavoratori.
Del resto – evidenzia la Corte – non essendovi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l’acquisizione del consenso, un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di formalismo estremo, tale da contrastare con la logica.
Del resto, dalla lettura del testo normativo, appare evidente come le forme di controllo che l’art. 4, L. 300/70, intende prevenire e reprimere siano quelle occulte o subdole, che minano il rapporto di fiducia tra azienda e lavoratore e che, soprattutto, si sostanziano in una lesione della dignità dello stesso, ridotto a mera espressione di mercificazione del lavoro.

Telecamere utili al dipendente,
non solo al datore di lavoro

Violare la dignità del dipendente significa privarlo di quella minima discrezionalità in ambito lavorativo che consente ragionevoli pause di lavoro o temporanei allontanamenti dalla postazione, quand’anche scambio di chiacchiere tra colleghi o momenti di semplice rilassamento o rallentamento dell’attività, che non incidono sul rendimento e sul rapporto di fiducia con l’azienda.
Un controllo a distanza che consentisse di censurare anche il dipendente che si reca in bagno o che scambia due chiacchiere con un collega, renderebbe la vita in azienda impossibile.
Più in generale, è da considerare illecito qualsiasi tipo di controllo a distanza che induca nel lavoratore la sindrome del pesce rosso, perché intrinsecamente disumano.
Ma occorre non confondere la tecnologia con l’intento lesivo del datore di lavoro che è animato da intenzioni vessatorie.
L’impianto di videosorveglianza non ha necessariamente una funzione di controllo a distanza, che - anzi - può essere addirittura esclusa con una regolamentazione dell’accesso ai dati che escluda a priori il datore di lavoro dalla visione delle immagini, delegandola, ad esempio, a terzi.
Al contrario, un’installazione che abbia lo scopo di tutelare il patrimonio aziendale e la sicurezza del lavoratore, dev’essere non solo tollerata ma finanche incentivata, poiché garantisce il bene aziendale e quindi gli interessi di entrambi, lavoratore e datore di lavoro.
Semmai, occorre interrogarsi sulle forme di controllo reciproco che potrebbero essere implementate, affinché il datore di lavoro non possa abusare dello strumento tecnologico e il lavoratore non possa strumentalizzare l’esistenza dell’impianto per rivendicazioni che non hanno senso.
Una telecamera in grado di rilevare situazioni anomale su postazioni a rischio, o la presenza di calore eccessivo negli ambienti di lavoro, o l’esistenza di fiamma viva, o la presenza di un corpo a terra in caso di edificio invaso dal fumo, è senz’altro più utile al lavoratore di quanto possa esserlo al datore di lavoro.
E’ quindi corretto, e anzi auspicabile - e questo è il senso della pronuncia della Corte di Cassazione - che il datore di lavoro dia la massima pubblicità in azienda alla volontà di installare un sistema di videosorveglianza, concordandone le modalità di installazione e di operatività con metodi democratici e coinvolgendo i dipendenti nella collocazione stessa delle telecamere.
Da un lato, per ottenere il miglior risultato dal punto di vista operativo, dall’altro per creare un clima di fiducia - e non di rassegnazione - nei confronti di uno strumento che tutela anche il lavoratore da incidenti e aggressioni.

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