Una sentenza riconosce la legittimità dell'uso della videosorveglianza (senza preventiva comunicazione) in caso di controlli difensivi per la tutela del patrimonio aziendale.
Nel contesto giuslavoristico italiano, la Corte di Cassazione ha recentemente affrontato il delicato equilibrio tra la tutela del patrimonio aziendale e il diritto alla riservatezza dei lavoratori. L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori vieta esplicitamente l’uso di impianti audiovisivi per il controllo a distanza dell’attività lavorativa ma la giurisprudenza, negli anni, ha interpretato questa norma in modo flessibile, riconoscendo la legittimità dei cosiddetti “controlli difensivi” che prescindono dal rapporto di lavoro e sono applicabili a qualsiasi cittadino si renda responsabile dello stesso illecito.
La sentenza in esame (Cass. pen., sez. V, n. 28613 del 5 agosto 2025) rigetta il ricorso della dipendente di una farmacia che era stata ripresa, durante l’attività lavorativa, da una telecamera nascosta e licenziata per furto aggravato, avendo potuto il titolare dimostrare, con tale espediente, la sottrazione di denaro dalla cassa contanti e di farmaci dagli scaffali dell’attività.
I motivi di ricorso
La dipendente aveva sostenuto che l’uso di telecamere di sorveglianza non visibili e installate senza alcun preavviso ai dipendenti - ancorché con il consenso dei carabinieri interessati dalle denunce contro ignoti per gli ammanchi di cassa e la sottrazione di farmaci - configurava un’ipotesi di intercettazione ambientale e doveva essere, pertanto, autorizzata dall’autorità giudiziaria, chiedendo l’inutilizzabilità delle prove a sostegno del licenziamento.
Sosteneva, altresì, che si configurava la violazione di un luogo di privata dimora in relazione alle telecamere installate negli spogliatoi, appellandosi alla giurisprudenza in materia di tutela del domicilio e degli altri luoghi a esso assimilabili. Quanto al luogo di privata dimora, con riferimento alla collocazione di una telecamera nello spogliatoio dei dipendenti, la Corte di Cassazione ha seccamente rigettato la tesi, trattandosi, alla luce delle risultanze dell’istruttoria, di un locale condiviso, accessibile sia al titolare che agli altri lavoratori e perfino a operatori esterni e clienti, utilizzato anche per altre attività lavorative.
Locale, pertanto, ben diverso da quelli individuati dalla giurisprudenza della Suprema Corte ai fini dell’equiparazione al domicilio, nei quali si svolgono - non occasionalmente ma stabilmente, al riparo da intrusioni esterne e in modo riservato - manifestazioni della vita privata dell’interessato.
Il punto rilevante
Sgombrato il campo dall’eccezione relativa al luogo di privata dimora, la Corte di Cassazione si è soffermata maggiormente sull’idoneità delle acquisizioni probatorie a sostenere l’accusa di furto e, quindi, il provvedimento di licenziamento per giusta causa.
Richiamando i principi relativi al generale divieto di installazione di impianti e dispositivi dai quali possa derivare il controllo a distanza del lavoratore, la Corte ha evidenziato che l’uso delle telecamere di sorveglianza dev’essere giustificato da specifiche esigenze di tutela degli interessi del titolare (esigenze organizzative o produttive, tutela del patrimonio aziendale, sicurezza del lavoro) e che i lavoratori devono essere adeguatamente informati della presenza delle telecamere e delle modalità di conservazione dei filmati (prescrizioni che, del resto, derivano dal Regolamento UE per la tutela dei dati personali 2016/679).
La pronuncia, tuttavia, chiarisce la differenza tra l’impianto di videosorveglianza installato come deterrente oppure come ausilio alle attività quotidiane delle telecamere installate appositamente per accertare la reiterazione di un illecito già pervenuto all’attenzione del titolare (e, in questo caso, delle forze dell’ordine), da interpretarsi come controllo difensivo e non come impianto da disciplinare (anche con accordo sindacale) sulla base del primo paragrafo dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e delle prescrizioni del GDPR.
In tal caso, infatti, un’eventuale informazione al dipendente o l’apposizione dei cartelli informativi secondo quanto previsto dall’art. 13 del GDPR vanificherebbero lo scopo dell’installazione, che è quello di accertare l’autore di illeciti già pervenuti all’attenzione del titolare in modo diverso, riscontrando ammanchi di cassa e sottrazione di farmaci dagli scaffali durante controlli operati manualmente.
Del resto, se venissero ritenute applicabili anche al caso del comportamento illecito del lavoratore le norme che limitano l’uso degli impianti di videosorveglianza in assenza delle prescrizioni dell’art. 4, primo paragrafo, e del GDPR, si accorderebbe un’ingiustificabile tutela accentuata al lavoratore, responsabile di un illecito rilevante anche penalmente e non solo ai fini giuslavoristici, rispetto al comune cittadino che dovesse rendersi responsabile dei medesimi illeciti, approfittando dell’assenza del personale per prelevare del contante o per sottrarre merce dagli scaffali, e ciò risulterebbe in contrasto con gli elementari principi di diritto.
La distinzione tra controlli difensivi e controlli a distanza
I controlli difensivi, espressamente previsti dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e non riconducibili alla disciplina del controllo a distanza, sono ammessi quando soddisfano tre condizioni principali:
- sono finalizzati a proteggere il patrimonio aziendale;
- sono attivati in presenza di fondati sospetti di comportamenti illeciti da parte di un dipendente;
- non sono effettuati preventivamente o a campione, ma in seguito a problemi già pervenuti all’attenzione del datore di lavoro, a seguito dei quali è stata disposta la misura di ulteriore accertamento dell’illecito per avere conferma della responsabilità del dipendente.
La sentenza in questione conferma questo orientamento, sottolineando che le videoriprese effettuate nei locali della farmacia erano legittime perché finalizzate a ottenere la conferma di attività illecite già ipotizzabili dal datore di lavoro a seguito degli ammanchi di cassa e della sottrazione di farmaci dagli scaffali.
A differenza di un controllo generico sull’operato dei dipendenti, l’installazione delle telecamere è stata una risposta mirata a proteggere i beni dell’azienda e gli interessi degli stessi lavoratori, posto che i furti reiterati danneggiano l’attività e mettono a rischio il posto di lavoro di tutti. Questo orientamento stabilisce che il diritto alla riservatezza del lavoratore cede di fronte all’esigenza di tutela contro eventuali illeciti commessi sul luogo di lavoro.
Qual è il discrimine
La sentenza della Cassazione offre una chiara guida per i datori di lavoro che sospettano comportamenti illeciti da parte dei propri dipendenti. L’uso di strumenti di videosorveglianza, sebbene generalmente vietato per il controllo a distanza, diventa legittimo (e le sue registrazioni utilizzabili come prova nei processi civili e penali), quando risponde a specifiche esigenze di tutela del patrimonio aziendale. La chiave di volta dell’interpretazione sta nel dimostrare l’esistenza di un fondato sospetto preesistente che giustifichi il controllo mirato, distinguendolo da una sorveglianza indiscriminata e lesiva della dignità dei lavoratori.
Nel caso di specie, l’interessamento delle forze dell’ordine a seguito di denuncia contro ignoti ha permesso al titolare dell’esercizio di superare agevolmente l’eccezione relativa all’installazione di una telecamera nascosta e consentito l’utilizzo dei filmati acquisiti dal dispositivo.
Come chiarisce la Corte, quindi, in chiusura di motivazione: «Il datore di lavoro […] può ben installare nei locali della propria azienda telecamere per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, e questo perché le norme dello Statuto dei Lavoratori tutelano sì la riservatezza del dipendente, ma non fanno divieto al tempo stesso di effettuare i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale, e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio».
Il verdetto della Cassazione
Si riporta lo stralcio della sentenza relativo all'uso della telecamera nascosta
Chiarisce la Corte che «[…] nella giurisprudenza […] si ritiene lecito l’impiego di una telecamera nascosta, non segnalata da cartelli e installata senza il consenso dei sindacati o dell’Ispettorato, se rivolta a controllare uno specifico dipendente nei confronti del quale ci siano già dei validi sospetti di comportamenti illeciti. Si ritengono, quindi, utilizzabili, sia nel processo civile che in quello penale in cui è imputato il dipendente, le registrazioni video realizzate a sua insaputa sul luogo di lavoro per proteggere il patrimonio aziendale.
Infatti, le norme dello Statuto dei Lavoratori, che pure tutelano la riservatezza dei prestatori, non proibiscono i controlli difensivi sui beni dell’impresa, e, infatti, si è affermato che sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro a opera del datore di lavoro, per esercitare un controllo in funzione della tutela del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, proprio sul rilievo che le norme dello Statuto dei Lavoratori, poste a tutela della riservatezza dei lavoratori, non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano l’esistenza di un divieto probatorio».



