Il futuro della security passa dall’AI

La visione della sicurezza si sta oggi evolvendo verso un approccio trasversale, dove i dati raccolti  da asset quali sensori, telecamere  e altre apparecchiature vengono uniti al flusso di informazioni provenienti dall’etere digitale  con l’obiettivo di sviluppare una risposta performante alle esigenze di protezione manifestate da luoghi, persone e contesti.

Il futuro della videosorveglian­za parla il linguaggio digitale, dialogando con l’Intelligenza Artificiale per creare quella si­curezza complessiva a cui pri­vati e aziende si affidano con aspettative sempre crescenti. Delle tendenze verso cui si sta dirigendo il mercato abbiamo parlato con Giacomo Salvanelli - tra i fondatori di Mine Crime, il primo database in Italia sulla criminalità geolocalizzata - che descrive le in­novazioni più recenti per integrare hardware e software in ottica trasversale.

L’era della sicurezza complessiva

L’impiego della videosorveglianza ai fini della sicurezza vede oggi vari settori (in particolare quelli legati alle infrastrutture critiche) investire sempre più tempo, denaro ed energie in progetti “trasversali” per la gestione di asset quali sensori AIT, telecamere a trazione AI e hardware, che processano dal contesto operativo milioni di dati poi incrociati con le informazioni provenienti dal mondo digitale (per esempio, i trend nei consumi e le tendenze legate alla sicurezza o a fenomeni di degrado urbano o sociale).

Giacomo Salvanelli, CEO e co-founder di Mine Crime

«Quello che dobbia­mo immaginare - spiega Salvanelli - è una sorta di doppio imbuto con una struttura a clessidra, che raccoglie tonnellate di dati: da un lato, gli elementi fisici propri del contesto, dall’altro, un flusso ininterrotto di informazioni provenienti dall’etere digitale raccolte attraverso altre fon­ti, principalmente open data. Da questa mole eterogenea, va plasmata la forma di quella che oggi prende il nome di ‘sicurezza complessiva’, che non fa più riferimento a segmenti verticali quali cyber, physical o travel security, (classifica­bili come sotto-branche della sicurezza nel suo complesso), bensì a una visione integrata da cui lo scenario presente non può prescindere».

Il futuro sembra puntare in questa direzione ma, al momento, quanto è già diffuso questo approccio di tipo trasversale nel mondo della security? 

«Parlando dell’Italia, al momento non ci troviamo in una fase così avanzata come in altre aree (per esempio, in estremo Oriente, in particolare in Cina), dove il concetto e la pratica di “sicurezza complessiva” sono molto più evoluti; siamo un passo indietro anche in confronto agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna, da sempre in prima fila per quanto riguarda le innovazioni nel mondo della sicurezza e della videosorveglianza.

In questi Paesi, infatti, le politiche di sicurezza urbana si sono dirette verso un approccio tra­sversale da almeno vent’anni: nel Regno Unito si conta (tra pubblico e privato) un sensore di rilevamento per la sicurezza urbana ogni 3/4 persone, in Cina si arriva addirittura a 1,5 per ciascun cittadino. Parliamo quindi di miliardi di telecamere, con una concentrazione molto elevata nei grandi centri urbani e nelle metropoli. La massa di dati raccolta ogni giorno è immensa e confluisce con gli altrettanto innumerevoli dati e informazioni provenienti dagli applicativi per scansionare i QRcode, dalle piattaforme e dalle fonti “aperte” e da tutto quanto viaggia nell’etere digitale.

Nel mettere a confronto i diversi Paesi è impor­tante anche valutare l’impatto della vigente legi­slazione sulla privacy, che pone dei perimetri ben precisi entro cui muoversi ai fini della sicurezza e della videosorveglianza. In Italia, per esempio, ha rappresentato una grossa battuta d’arresto per il settore l’introduzione del GDPR, che in­dubbiamente costituisce un ostacolo rispetto ai contesti in cui la tutela della privacy è minore - due casi su tutti la Cina, dove il progresso tecno­logico-applicativo corre spedito, e gli Stati Uniti, che prevedono molti meno condizionamenti in materia.

Un altro esempio di queste differenze di approccio è ben rappresentato dalla recente multa milionaria che il Garante della privacy europeo ha comminato a Facebook, reo di aver utilizzato i dati dei suoi utenti per attività di ge­omarketing; negli Stati Uniti la stessa condotta non sembra sollevare particolari obiezioni».

COSA FA UN SISTEMA INTEGRATO

Un kit di sicurezza “chiavi in mano”, attivo nel perimetro di un’infrastruttura o su un asset specifico, prevede un insieme di telecamere che in maniera intelligente raccolgono e scansionano milioni di dati (su meteo, luminosità , spostamento delle persone ecc.), per poi procedere all’elaborazione e all’interconnessione delle informazioni, producendo insight giornalieri, settimanali, mensili o stagionali sull’andamento delle variabili prese in esame e studiando come potrebbero evolvere nel tempo.

Come incide sull’attività degli operatori della videosorveglianza questo nuovo scenario?

«Il mercato sta andando verso un’integrazione delle parti: non sorprende, quindi, che alcuni produttori di telecamere, sensori o altro af­fianchino a strumentazioni e apparecchiature hardware di tipo standard - decisamente più abbordabili economicamente - anche prodotti software capaci di unire trasversalmente tut­ti i dati.

Tendenzialmente però l’acquirente di sistemi di videosorveglianza predilige soluzio­ni “chiavi in mano”, che si tratti di hardware e software già predisposti per dialogare tra loro o (ancora meglio) di sistemi integrati dove un unico prodotto fornisce una sicurezza a 360 gradi, consentendo di processare dati diversi provenienti da fonti diverse».

Mine Crime, il vostro strumento su misura di sicurezza integrata, al momento è di supporto a progetti di questo tipo? 

«Sì, infatti stiamo collaborando con una gran­de azienda italiana dell’ambito utilities per un nuovo progetto, in cui il database Mine Crime svolge la funzione di integrare i flussi di dati e informazioni che il cliente raccoglie attraverso telecamere di sorveglianza e sensori relativi al contesto climatico e ambientale.

L’azienda opera su tutto il territorio nazionale, ma al momento il progetto pilota riguarda solo i dispositivi dislo­cati in Lombardia, dove stiamo integrando un sistema di telecamere e sensori ormai datato, fermo a quando si raccoglievano i dati del con­testo ambientale, ma non si dialogava ancora con l’etere digitale». 

Sul piano economico, i sistemi di nuova generazione sono accessibili in base agli standard di spesa oggi previsti in ambito pubblico e privato?

«Sicuramente si tratta di investimenti importanti ma, come per i sistemi ora in uso, il costo varia molto caso per caso, in base alle caratteristiche e alle implementazioni necessarie. A oggi, per esempio, è possibile attrezzare un sistema di videosorveglianza con una ventina di sensori anche affidandosi ad apparecchiature di costo minimo acquistabili in rete, effettuando una spesa contenuta a cui aggiungere solo il costo per l’installazione ed eventualmente quello per un software di accesso a un database come Mine Crime.

Se invece l’idea fosse quella di dotarsi di una macchina in grado di fare quanto descritto in termini di sicurezza di sistema complessiva, si arriverebbe a cifre in proporzione decine di volte superiori».

Deep web e dark web: cosa c’è sotto la superficie della rete

Oltre che dall’etere digitale “tradizionale” i dati quotidianamente processati provengono anche dal deep web, che è cosa differente dal dark web: la rete infatti è suddivisa in tre diversi livelli, a partire dal segmento “normale” di Internet, altamente indicizzato, per poi scendere a un livello più profondo (deep web), dove si opera secondo una SEO (Search Engine Optimization) al contrario: le piattaforme e i siti vengono strutturati in base a termini assolutamente non in trend, così da ottenere di passare il più possibile sotto traccia.

Scopo del deep web è quello di creare una nicchia accessibile a un numero ristretto di utenti - familiari con questo particolare linguaggio “inverso” - dove commercializzare più facilmente prodotti al limite od oltre il lecito. Esiste poi un livello ancora più nascosto, noto come dark web, in cui si muovono terroristi digitali e grandi gruppi criminali, tutti sicuramente dotati di notevole abilità informatica.

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