Crimine e oggetti connessi, quale futuro? Tra privacy e giustizia

privacy e giustizia

“Intermediari della sorveglianza”, questa la definizione che Alan Rozenshtein, professore di Legge dell’Università del Minnesota, ha coniato per tutte quelle piattaforme od oggetti digitali entrati di recente nella nostra esistenza, e che fatalmente si sono trasformati in testimoni di delitti o comunque possibili contenitori di prove.

I cellulari, come nel 2015 quando l’Fbi chiese ad Apple di sbloccare l’iPhone di uno dei colpevoli, Facebook, Google e Twitter, oppure il Fitbit che indossiamo durante la giornata, e non solo. Ci sono già casi giudiziari che coinvolgono questi strumenti, più di recente anche l’inconsapevole Alexa, probabile testimone di un caso di omicidio, come riferisce il Washington Post.

Una donna è stata accoltellata nella propria cucina a Farmington, New Hampshire, sospettato il fidanzato convivente e Alexa viene tirata in causa con una richiesta ad Amazon perché rilasci le registrazioni fatte dal dispositivo nel caso sia stato attivato anche involontariamente da una parola pronunciata il giorno dell’omicidio. Come già successo con Apple, anche in questo caso l’azienda potrebbe decidere di privilegiare la privacy degli utenti, e anche la propria, perché svelare le registrazioni sarebbe una specie di ammissione di colpa anche per Amazon, che confermerebbe il sospetto che Alexa “spia” nelle nostre case. Visto il moltiplicarsi degli “intermediari della sorveglianza”, può darsi che invece le aziende sviluppino servizi aggiuntivi di sicurezza basandosi sulle sottovalutate capacità di “ficcanaso” dei dispositivi digitali connessi, come già avviene con numerose app per lo smartphone.

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