Entro la fine dell'anno, sarà resa operativa la sistematica raccolta dei dati genetici di chi ha commesso un crimine, agevolando così l'attività investigativa.
Sempre più spesso, a fronte di episodi di cronaca nera, si sente parlare del test del DNA. Un'analisi sulla quale i mass media hanno detto e scritto molto, ma che è poco conosciuta.
In realtà, di tratta di una metodologia scientifica relativamente nuova, se pensiamo che solo nel 1953, per la prima volta, la rivista Nature annunciò il “dipanamento” della struttura biochimica del DNA e, dunque, la scoperta del codice della vita.
Un codice composto da sole quattro lettere: A, G, C e T, ovvero le basi azotate adenina, guanina, citosina e timina, come molti di noi hanno imparato a scuola.
Questi componenti non si combinano liberamente, ma in ogni campione di DNA devono esserci tante A quante T e tante G quante C.
Una corrispondenza dettata dal fatto che la doppia elica del DNA stesso risulta formata da due filamenti: se su uno dei filamenti c’è una A, sull’altro si trova una T e ogni volta che su uno c’è una G, sull’altro deve esserci una C.
La scoperta, però, non ebbe impieghi pratici fino alla metà degli Anni ’80, quando vennero realizzati i “sequenziatori”, ovvero macchine in grado di analizzare frammenti di DNA sulla base della Pcr (Polymerase chain reaction).
Queste apparecchiature sono in grado di moltiplicare un miliardo di volte una piccola sequenza, attraverso una vera e propria reazione a catena.
La macchina divide poi il frammento di DNA in molti “pezzetti”, per ricostruire l’intera sequenza del frammento originario.
Nel corso delle indagini, si parte da un frammento di DNA, tipicamente isolato dal sangue, dalla pelle, dalla saliva, dai capelli e da altri tessuti e fluidi biologici, per risalire ai responsabili di un crimine.
Si utilizza, quindi, un procedimento di tipo “fingerprinting genetico” (impronte digitali genetiche), che passa attraverso la comparazione tra due campioni di DNA.
L'esame, quindi, non deve verificare tutta la sequenza di una molecola (che è composta da miliardi di basi), ma solo un tratto limitato, anche perché la stessa sequenza è ripetuta dal nostro organismo per centinaia di migliaia di volte.
Quanto è affidabile il test?
Sulla base degli ultimi risultati scientifici, la corrispondenza del DNA può essere messa in dubbio sono in presenza di due gemelli identici (omozigoti), in quanto il DNA di ogni individuo è unico.
In realtà, dopo il prelievo, il campione deve essere spezzettato in “strisce”, grazie ad alcuni enzimi che riconoscono specifiche sequenze di basi lungo il filamento di DNA e che lo “tagliano” esattamente in corrispondenza di queste sequenze.
Se, al termine delle verifiche, le sequenze (che possiamo paragonare a quelle di un codice a barre) coincidono in diverse strisce, è quasi impossibile che tale coincidenza sia casuale.
Infatti, partendo da un elevato numero di strisce e sfruttando moderni strumenti di analisi, la probabilità di una coincidenza casuale è 1 su 100 miliardi, ovvero praticamente nulla.
Il vero problema è legato al fatto che, in molti casi, gli inquirenti dispongono solo di pochi frammenti del DNA e questo fa scendere le probabilità di un'individuazione sicura a 1 su 5 milioni.
Anche il questo scenario, la coincidenza casuale appare limitata, ma può offrire un'opportunità agli avvocati della difesa.
In particolare, in sede processuale, viene spesso contestato l'impiego di campione scarso o vecchio.
In passato, inoltre, la tecnica era meno perfezionata e anche l’affidabilità dei risultati veniva posta in discussione. Oggi, al contrario, anche un mozzicone di sigaretta contiene tracce sufficienti per rivelare l’identità di chi l’ha fumato.
Esistono comunque problemi metodologici, prevalentemente legati al modo in cui vengono condotte le indagini: ad esempio, l’identificazione di un presunto colpevole può essere pregiudicata qualora la scena del crimine sia contaminata dal DNA di diverse persone.
Il test, del resto, offre un risultato scientifico inattaccabile, in quanto permette di correlare un'impronta genetica a una persona, ma non consente di affermare che una persona abbia effettivamente commesso il reato.
Occorre, inoltre, ricordare che, soprattutto quando i liquidi biologici possono essere mischiati, l'analisi risulta molto complessa.
L'esempio più classico è quello di una violenza sessuale di gruppo, in cui sono presenti più fluidi biologici.
Se nelle due sequenze poste a confronto c’è anche un solo numero diverso, una persona viene infatti scagionata.
L’importanza della banca dati
Un ulteriore limite, al quale il nostro Paese dovrebbe però porre rimedio nel corso di quest'anno, è legato all'assenza di una Banca dati del DNA.
Per associare una traccia biologica a una persona, è necessario individuare almeno dei potenziali colpevoli.
Un limite simile era presente, in passato, quando si sfruttava l'identificazione delle impronte digitali.
Tracce univoche che, sino all'informatizzazione risalente a metà degli anni Novanta, erano salvate su semplici cartellini fotodattiloscritti, cui si attingeva su segnalazione specifica. Un limite oggi superato da Afis, la banca dati delle impronte digitali.
Un supporto che può essere confrontato, in modo automatico, attraverso un archivio generale delle persone.
Lo stesso procedimento di raccolta, stoccaggio e analisi può essere impiegato nella classificazione del DNA in un archivio informatico di persone implicate in procedimenti penali.
Una banca dati del DNA, quindi, permetterebbe di dare un nome ai segni lasciati sul luogo del crimine da persone che non hanno mai avuto alcun rapporto con la vittima e che, quindi, non sarebbero coinvolte direttamente nelle indagini.
Il tutto completato dal fatto che la Banca del DNA non verrebbe impiegata solo in casi giudiziari, bensì anche per risalire all'identità di cadaveri rinvenuti dopo un incidente e per l’analisi di resti scheletrici.
Garantire la privacy
A rallentare l'adozione di un simile strumento in Italia, ha contribuito anche la necessità di garantire i profili di tutela della privacy.
Anche in considerazione del fatto che, attraverso un frammento di DNA - anche trafugato - è possibile acquisire molteplici informazioni, anche di carattere sanitario, su un soggetto.
Ma tale limite è stato superato mediante una rigida separazione tra il laboratorio che analizza i campioni biologici e la banca dati dei risultati.
La banca dati nazionale del DNA è chiamata a effettuare la tipizzazione dei profili di DNA e la conservazione dei campioni biologici (saliva) prelevati nei confronti di una serie di soggetti.
Si tratta di persone coinvolte in delitti non colposi, per i quali è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, con una serie di esclusioni (delitti tendenzialmente non connotati da violenza o minaccia, quelli contro l’amministrazione della giustizia, i delitti di falso, quelli fallimentari).
Definiti i dettagli della normativa, lo scorso febbraio il Ministro della Giustizia ha confermato che il collaudo del laboratorio centrale è in via di ultimazione, soprattutto per quanto riguarda le tecnologie informatiche e il modulo di comunicazione tra il sistema informativo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e quello del Ministero dell'Interno.
Successivamente, non appena formato il personale del laboratorio stesso, si potrà procedere al collaudo e all'accreditamento.
Nel frattempo, nei singoli Istituti penitenziari sono state create le cosiddette "stanze bianche", dotate dei kit necessari per le operazioni di prelievo del DNA nei confronti dei detenuti.
Operativi entro fine anno
Una situazione che, secondo lo stesso Ministro Orlando, permetterà, nel secondo semestre di quest'anno, di rendere operativi sia la banca dati che il laboratorio.
Una struttura, quest'ultima, prevista dal Trattato di Prüm del 2005: in quell'occasione, i Paesi dell’Unione si erano accordati sulla raccolta del DNA di soggetti pericolosi.
Un accordo che l'Italia ha iniziato ad attuare concretamente solo nell'ottobre del 2010, quando venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo che prevedeva l’istituzione dei “ruoli tecnici del personale del Corpo di Polizia penitenziaria”.
Solo nel 2013, però, il laboratorio - realizzato in un vecchio capannone nel polo di Rebibbia - è stato definito “pronto”, benché non fossero ancora stati definiti i profili dei tecnici necessari.
Un ritardo che permette però all'Italia di adeguarsi, da subito, ai più elevati standard legislativi internazionali.
Dal punto di vista delle procedure, infatti, vengono garantiti assoluti livelli di privacy, in quanto il campione non ha nome e cognome, poiché l'anagrafica è solo nella banca dati delle impronte e l'identificazione del soggetto avviene solo dopo concordanza. Una caratteristica che previene abusi dello strumento.
I profili di DNA, ottenuti dai soggetti detenuti e trasmessi alla banca dati nazionale DNA, potranno poi essere utilizzati per i necessari confronti con i profili di DNA ottenuti dalle tracce biologiche repertate dalle Forze di Polizia nel corso delle attività investigative.
Il tutto con l'obiettivo di giungere, con la stessa modalità attualmente utilizzata per le impronte digitali, all’identificazione della persona che ha lasciato la propria traccia biologica sul luogo del delitto.
É però opportuno ricordare che, in sede processuale, una simile informazione non rappresenta una prova, ma solo un indizio.
Leonardo Castelli