Spending Review e sicurezza

La Spending Review – o “revisione della spesa” – insieme alla crisi economico-finanziaria rappresenta una criticità per il settore sicurezza. Ma può divenire anche un’opportunità: si aprono, così, scenari sulla cultura, l’accettazione dei livelli di rischio e sulle nuove professioni.

Federica Giorgia Rosa
Sociologa
Specializzata in Criminalità e Tecnologie per la Sicurezza

In tempi di crisi e di revisione della spesa, la sfida del settore è data da una sicurezza “a minor costo” ma efficiente, di livello.
E le modalità per realizzarla hanno origine in una “cultura della sicurezza” che si interroga su come utilizzare le risorse, per quali finalità e con quali risultati.
A tale riguardo, il professor Marco Lombardi - docente di Crisis & Risk Management (C&RM) presso l’Università Cattolica di Milano - spiega come la Spending Review sia un elemento determinante nell’incremento del bisogno di sicurezza.
E, come, da oltre vent’anni, abbia preso piede una “dottrina preventiva” che permette di fare prevenzione attraverso l’applicazione di metodo e l’identificazione delle vulnerabilità: individuate le caratteristiche delle “vittime”, è allora possibile ridurre le vulnerabilità specifiche incrementando la sicurezza.
Il rischio viene così letto in ottica preventiva e gestionale.
Dunque, le risorse economiche e i finanziamenti sono, sì, necessari per disporre di strumenti adeguati e innovativi per fare sicurezza ma, tuttavia, se le risorse vengono elargite in modo casuale o generalizzato, inevitabilmente si finisce per fare meno prevenzione e produrre più vulnerabilità.
Un confuso e scorretto utilizzo delle risorse economiche - sottolinea Lombardi - farebbe arretrare di vent’anni l’approccio preventivo di settore, con conseguenze allargate e generalizzate”.

La sicurezza non è un costo,
ma una spesa “preventiva”

L’idea è semplice e logica: la soluzione è produrre, alimentare e diffondere una cultura della sicurezza, ovviando una partenza stimata negativamente sulla misura della consapevolezza di rischi da affrontare e gestire senza risorse.
Pertanto, il preconcetto che vuole la sicurezza un “costo a perdere” deve essere annientato e sostituito dal concetto di sicurezza come “spesa preventiva”.
E cultura della sicurezza significa anche formazione, ambito nel quale i tagli hanno un’alta percentuale perché la percezione che si ha è generalmente proiettata in un arco temporale lontano, un investimento che si attualizza in futuro e viene, quindi, inteso nel breve periodo come un puro, evitabile, costo.
La formazione di operatori professionali è un buon punto di partenza, perché - come afferma il Professor Lombardi - “… solo conoscendo le minacce si possono prevenire scenari di rischio riducendo le vulnerabilità. Investire nella cultura della sicurezza richiede responsabilità individuali nell’affrontare i rischi. Responsabilità che non si possono demandare”.
Ci deve essere una consapevolezza diffusa circa l’importanza di una cultura della sicurezza, realizzabile attraverso l’informazione e la formazione.
Un esempio di operatori professionali è portato dall’esperienza di Regione Lombardia, dove la Direzione Generale di Protezione Civile (RL DG PC) - in collaborazione con la Scuola Superiore di Protezione Civile di Eupolis Lombardia - fa formazione sui rischi naturali, antropici e tecnologici ed è l’unico ambito del Sistema di PC di RL che, per scelta, non ha subito tagli per l’anno in corso.
Se prima si spendevano male i soldi, ora si devono fare spese migliori.
Dalla formazione al modello di intervento in emergenza: grazie a una metodologia di “debriefing” - valutazione delle positività e negatività del processo, con proposta di soluzioni - e di “lesson learned” - lezione appresa - è stato migliorato, velocizzato e standardizzato un modello operativo di intervento.

Quanti reati subiscono le imprese italiane?
Anche il settore privato è attento all’ottimizzazione delle risorse ed è, quindi, adatto a recepire metodi per una gestione più efficiente dei rischi. Aspetto, questo, rilevante per la competitività aziendale.
Ma quanti reati subiscono le imprese italiane?
Secondo il rapporto che il Centro di Ricerca Transcrime (Università Cattolica di Milano e Università di Trento) ha condotto per il Ministero dell’Interno sulle imprese vittime di criminalità in Italia, ben 4 imprese su 10 hanno subito almeno un reato negli ultimi dodici mesi.
Lo studio - basato su interviste a 11.477 imprese - ha rivelato come queste ultime subiscano un numero di reati - soprattutto di tipo predatorio (furti e rapine) - almeno tre volte superiore ai singoli individui.
Dati non distanti da quelli emersi in paesi come Regno Unito e Stati Uniti, ma che ci suggeriscono come ridurre i reati subiti significhi ridurre le perdite operative e migliorare la performance aziendale.
Un esempio molto importante viene dalle strategie di gestione del rischio-rapina in banca negli ultimi anni: “Si tratta di un caso di studio molto interessante - afferma Stefano Caneppele, criminologo dell’Università Cattolica di Milano con un percorso di Laurea Magistrale dedicato a tali temi - perché dagli anni ’90 abbiamo assistito a una quasi ininterrotta riduzione delle rapine in banca, ottenuta tramite misure di prevenzione che hanno reso più difficile e meno remunerativa la rapina in sé”.
Merito sicuramente delle tecnologie adottate quali, ad esempio, casseforti a tempo, metal detector, sistemi di videosorveglianza.
Continua Caneppele: “Tutti questi interventi hanno impattato sul modus operandi della rapina in banca. Ad esempio, il metal detector ha limitato enormemente la possibilità di utilizzo di armi da fuoco, che sono state spesso sostituite con armi da taglio. O, ancora, le casseforti a tempo e altre misure di limitazione del contante hanno drasticamente abbattuto il bottino medio per rapina, che è passato dai circa 90 mila euro dei primi anni ’90 a circa 20 mila. Con così poco contante da dividere, sono scomparse le bande di rapinatori, sostituite da rapinatori singoli o, al massimo, in coppia”.

Effetto “spostamento” e multi-vittimizzazione
Un altro tema importante e dibattuto è quello dell’effetto “spostamento”.
In pratica, uno dei timori è che, proteggendo gli obiettivi a rischio, la criminalità non si riduca ma semplicemente si sposti su altri obiettivi più vulnerabili.
Questo dato sembra suggerito anche dalla recente indagine OSSIF - Rapporto intersettoriale sulla criminalità predatoria, 2012 - che conferma un decremento del 5,8% delle rapine totali in Italia al 2010 e una maggiore concentrazione verso esercizi commerciali (17,4%), abitazioni (6,2%), banche (4,1%), farmacie (3,2%) e uffici postali (1,2%).
Il dato, tuttavia, più curioso che ci viene dagli studi criminologici, riguarda la multi-vittimizzazione.
Potrà forse apparire strano - spiega Caneppele - ma spesso molti tipi di criminalità colpiscono ripetutamente le stesse vittime, più volte”.
È quello che viene riassunto nella cosiddetta regola 80/20, dove l’80% dei reati è subito da un 20% della popolazione. “Ovviamente non si tratta di una rigida percentuale statistica - continua il criminologo - ma serve a dare l’idea del fatto che i reati non si distribuiscono in modo casuale. Per fare un esempio pratico, tra il 2005 e il 2009 il 7% degli sportelli bancari ha subito il 61% di tutte le rapine in banca commesse nello stesso periodo. È chiaro, quindi, che l’investimento in sicurezza non può essere fatto a pioggia ma, per essere efficace, deve concentrarsi là dove le vulnerabilità sono maggiori”.
Questo studio è stato reso possibile grazie ai dati dell’Osservatorio ABI - Associazione Bancaria Italiana - sulle rapine in banca, che da anni monitora il fenomeno, consentendo agli addetti del settore di adottare politiche mirate.

Maggiore efficienza a minor costo
l rischio criminalità non potrà mai essere uguale a zero. Ciononostante, si può ridurre ancora, anche in tempo di crisi e di revisione delle spese.
Secondo i dati Eurostat, nel 2005, in Italia, c’erano 561 tra Poliziotti, Carabinieri e Finanzieri ogni 100.000 abitanti.
Un dato, questo, molto superiore alla media europea.
È chiaro che, con il blocco del turnover, questi numeri sono destinati a scendere.
Come garantire, allora, pari o maggiori livelli di sicurezza a minori costi? Sul solco tracciato da altri paesi europei come la Francia, che hanno riformato le proprie forze di Polizia eliminando i conflitti di competenza, adottato nuove tecnologie e puntato sul reclutamento di personale con competenze specialistiche e ad alto valore aggiunto.
È questa l’unica certezza sulla quale poggiano tutte le riforme delle Forze di Polizia nei paesi occidentali: oggi ci vogliono analisti e operativi con conoscenze trasversali, un capitale umano in grado di offrire nuove competenze con un approccio innovativo e multidisciplinare.
C’è, dunque, un punto di contatto tra spending review e prevenzione, che non devono essere istanze opposte, ma la faccia di una stessa medaglia: prevenire (o ridurre) la probabilità di un evento criminoso e/o le sue conseguenze significa fare cultura della sicurezza utilizzando le migliori risorse disponibili.
Anche il direttore generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza della Repubblica, Giampiero Massolo, afferma: “La parola chiave è formazione. La sfida è valorizzare le nostre risorse umane e, in particolare, le nuove leve, attraverso un continuo percorso di aggiornamento e di crescita professionale, a tutti i livelli di impiego. Assicurare un graduale ricambio generazionale è indispensabile per mantenere standard di eccellenza nel servizio fornito al Paese”.
In sintesi, la sicurezza è diventata un fattore di competitività: maggiore efficienza a minor costo.

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